Homebrewing – Parte 3

Processo di produzione

il racconto della birra_cop.inddPassiamo ora al processo di produzione vero e proprio. Questo si può suddividere nei seguenti passaggi:

  • Macinazione
  • Ammostamento
  • Filtrazione e risciacquo
  • Bollitura
  • Raffreddamento

La macinazione

Lo scopo della macinazione è quello di permettere la solubilizzazione dell’amido e degli enzimi contenuti nel malto. Questa operazione, che può apparire banale, ricopre una certa importanza: una macinazione errata può causare problemi di vario genere. Se i grani vengono frantumati troppo finemente si rischia di creare troppa farina determinando alterazioni nella torbidità della birra finita. Al contrario, una macinazione troppo grossa impedirebbe la totale solubilizzazione degli amidi con effetti negativi sul rendimento finale.

È importante capire che i grani vanno schiacciati preservando, in questo modo, lo stato delle glumelle (scorze) che non devono frantumarsi. La loro integrità migliora la fase di filtrazione: tutte le scorze formano un pannello filtrante che aiuta a estrarre un mosto limpido. Dal punto di vista organolettico, lo “sfarinamento” delle glumelle non permette una efficace filtrazione con conseguente rilascio delle stesse all’interno del mosto. Questo, in fase di bollitura, causerebbe un rilascio di tannini e altre sostanze amare nella birra finita, determinando indesiderati gusti astringenti.

Ammostamento

Dopo aver macinato il malto d’orzo, questo viene miscelato con acqua calda per permettere l’attivazione di particolari enzimi contenuti nel malto. Grazie a questi enzimi molti composti vengono estratti dalle parti solide e si dissolvono nella componente liquida (mosto). È il caso dell’amido che viene convertito in zuccheri fermentabili, futuro alimento per i lieviti. Questa fase di produzione prende anche il nome di mash.

Gli enzimi sono proteine presenti nel malto. Ne esistono diversi, ognuno con un ruolo specifico che si attiva sostando a temperature e livelli di acidità (pH) diversi.

Nel dettaglio, le maggiori famiglie di enzimi sono:

Fitasi (sosta 30-52° C) ha la funzione di abbassare il livello di pH agendo sulla fitina, un fosfato contenuto soprattutto nei malti. Oggi questa sosta non viene più eseguita dal momento che risulta più pratico e rapido utilizzare altre sostanze per abbassare il pH del mosto (esempio solfato di calcio).

β-glucanasi (37-46° C) ha il compito di degradare i β–glucani, polisaccaridi presenti nella crusca dei cereali. La loro degradazione rende più semplice il processo di estrazione degli amidi dal cereale. Anche questa sosta viene comunemente saltata, dal momento che tali enzimi vengono attivati nella fase di maltazione.

Peptidasi e Proteasi (46-58° C) hanno la funzione di spezzare i legami peptidici che uniscono i vari amminoacidi presenti nel malto e dalla cui concatenazione hanno origine le proteine. In sostanza questa sosta ha la funzione di ridurre le proteine all’interno del mosto. Un eccesso di proteine può causare problemi alla birra in fatto di torbidità e di eccesso di schiuma. Per contro, un prolungamento eccessivo di questa fase può generare birre dal corpo evanescente (acquose) e senza il giusto grado di schiuma. La fase in cui entra in azione questo enzima viene comunemente detta Protein Rest.

Diastasi, sono gli enzimi più importanti per la produzione della birra e sono quelli che hanno la funzione di rompere gli amidi formando zuccheri. I due principali enzimi diastasi sono:

β-amilasi (54-68° C) ha la funzione di degradare gli amidi formando zuccheri semplici (in particolare maltosio) altamente fermentabili dal lievito. Più si lascia lavorare l’enzima della β-amilasi e più si otterranno birre maggiormente fermentabili (ovvero con più nutrimento per il lievito) e quindi con un tenore alcolico più alto e meno corpose.

α-amilasi (63-76° C) hanno la funzione di degradare gli amidi per ottenere però zuccheri complessi, detti destrine, che non sono fermentabili dal lievito e che concorrono a dare sapore e corpo alla birra.

Gli enzimi della β-amilasi e dell’α-amilasi, attivandosi a temperature simili, agiscono spesso contemporaneamente. Questa attività reciproca dei due enzimi causa una ulteriore conversione delle destrine prodotte dalla α-amilasi in maltosio. Per questo motivo, prolungare l’ammostamento oltre il tempo necessario può portare a un eccessivo contenuto di zuccheri fermentabili dai lieviti, quindi birre con minor corpo e maggior grado alcolico. È quindi consigliato inibire l’attività enzimatica a fine ammostamento scaldando il mosto a una temperatura di 78°C per un tempo di 10 minuti.

La fase di ammostamento è quindi la fase più importante dell’intero processo. Da essa dipendono le future caratteristiche che la birra avrà: corpo, alcool, schiuma, etc.

Esisto tre differenti metodi di ammostamento:

  • L’ammostamento a infusione è quello più comunemente usato sia dai birrifici artigianali sia dagli homebrewer. Consiste nell’aumentare progressivamente la temperatura della miscela acqua/cereali fino a determinati livelli tramite riscaldamento diretto dell’impasto (pentolone sul fuoco)
  • L’ammostamento a infusione “inglese” consiste nell’aggiunta di acqua bollente per innalzare la temperatura del mosto. Si calcola il quantitativo di acqua bollente da aggiungere in modo da ottenere dalla miscela la temperatura desiderata.
  • La decozione consiste nel prelevare una parte dell’impasto e portarlo a ebollizione separatamente. Successivamente, questo viene rimescolato alla miscela principale con lo scopo di innalzare la temperatura. Facendo bollire una parte dei grani si ottiene una migliore estrazione degli amidi, i quali verranno convertiti dagli enzimi quando questo verrà rimescolato con il mosto principale. Inoltre, grazie alla bollitura si verifica una leggera “caramellizzazione” che conferisce un sapore più pieno e un gusto più maltato alla birra finita.

Filtrazione

Conclusa la fase di ammostamento si procede con la filtrazione e il risciacquo delle trebbie. In questa fase il mosto liquido viene separato dalle trebbie.

Il processo prevede di aprire il rubinetto di scarico del tino di filtrazione e far confluire, lentamente (circa un litro al minuto), il liquido in un’altra pentola di raccolta. Il consiglio è quello di non eseguire filtrazioni rapide perché si potrebbero portare diverse impurità nella pentola di raccolta. Queste impurità, in fase di bollitura, generano un eccesso di tannini nella birra finita.

Estratto il primo mosto bisogna recuperare tutti quegli zuccheri che sono rimasti imprigionati nelle trebbie. Per fare ciò, si procede con l’aggiunta di ulteriore acqua calda (a circa 78° C), recuperando in questo modo ulteriore mosto attraverso una nuova fase di filtrazione. Questa seconda fase viene chiamata risciacquo o sparging.

Dal punto di vista pratico esistono diversi metodi per realizzare la fase di sparging, suddivisi principalmente in due approcci, fly e batch.

Fly sparge

Con questo metodo, il livello del liquido nel tino di filtrazione viene mantenuto costante senza che questo scenda troppo esponendo le trebbie all’aria[1]. Quindi, mentre il mosto esce dal rubinetto di scarico, viene moderatamente aggiunta al tino di filtrazione altra acqua calda.

Batch sparge

Il batch sparge consiste nel terminare la prima fase di scarico del mosto senza aggiunta di acqua. Successivamente bisogna chiudere il rubinetto di scarico e aggiungere acqua calda alle trebbie, rimescolando il tutto. A questo punto si attende che le parti solide si depositino formando nuovamente il letto di trebbie e si riapre il rubinetto per il secondo scarico del mosto.

Questo processo può essere ripetuto più volte. Di norma si considera terminato il risciacquo non appena la densità del mosto estratto scende al di sotto di 1,010.

No sparge

È anche possibile non eseguire nessuna forma di risciacquo e recuperare solo il mosto ricavato dalla prima estrazione. La scelta di tale soluzione potrebbe essere motivata dalla volontà di creare una birra dal tenore alcolico elevato.

Bollitura del mosto

A questo punto si passa alla fase di bollitura.

In questa fase si svolgono funzioni importanti:

  • Estrazione delle sostante amaricanti e aromatiche del luppolo e di ulteriori spezie
  • Sterilizzazione del mosto
  • Concentrazione del mosto a causa dell’evaporazione
  • Formazione di coaguli di proteine la cui rimozione, se eseguita, influisce positivamente sulla trasparenza della birra

Con l’introduzione del luppolo in fase di bollitura ha luogo il rilascio di sostanze amaricanti e aromatiche nel mosto. Brevemente, se il luppolo viene inserito a inizio bollitura allora si privilegerà il rilascio di sostanze amaricanti. Al contrario, se lo stesso viene inserito quasi a fine bollitura, si darà più spazio alle sostanze aromatiche e agli olii essenziali. Queste conferiscono alla birra componenti che vanno a completare il bouquet aromatico del prodotto.

Responsabili dell’amaro sono i cosiddetti α-acidi[2], difficilmente solubili in acqua o nel mosto, i quali proprio grazie alla bollitura vengono convertiti in iso-α-acidi. Sotto questa forma, sono più solubili e rendono la birra più amara. Il livello di solubilizzazione degli iso-α-acidi dipende da alcuni fattori

  • durata della bollitura: maggiore è il tempo di bollitura dei luppoli maggiore sarà il grado di “amaro” rilasciato. Di norma, non si va oltre i 60-90 minuti di bollitura, tempo oltre il quale il livello di solubilizzazione diminuisce.
  • densità zuccherina del mosto: mosti molto diluiti permettono una migliore solubilizzazione, al contrario, mosti densi ne limitano lo scioglimento. In questo ultimo caso si può ovviare al problema aumentando il quantitativo di luppolo previsto dalla ricetta.

Per accrescere maggiormente le sostanze aromatiche che il luppolo è in grado di cedere al mosto è consuetudine inserire il luppolo direttamente in fase di fermentazione, a mosto freddo. Questa tecnica viene comunemente denominata “dry hopping”. È spesso utilizzata per produrre quegli stili di birra nei quali si vuole esaltare alcune componenti aromatiche, come le Pale Ale inglesi.

I luppoli in commercio sono venduti in diverse forme: coni (fiori essiccati), plugs (coni pressati), pellets (pastiglie).

Altra funzione importante che il processo di bollitura scaturisce è la formazione di coaguli proteici. Queste aggregazioni proteiche[3], se lasciate nel mosto, causano torbidità ed evanescenza della schiuma nella birra finita. Il fatto che questi coaguli si formino durante il processo di bollitura è un vantaggio perché questo permette il loro asporto. Inoltre, sembra che la mancata rimozione di questi coaguli possa influenzare il lavoro del lievito nella successiva fase di fermentazione.

Durante la bollitura, avviene anche una riduzione di volume del mosto a causa dell’evaporazione. Questo non rappresenta un problema visto che si è soliti recuperare mosti molto diluiti in fase di filtraggio e risciacquo. In caso di evaporazione eccessiva si può rimediare con l’aggiunta di acqua direttamente nel fermentatore.

Infine la bollitura attua un processo di sterilizzazione del mosto. Infatti, prima di questa fase non è indispensabile fare attenzione alla sanitizzazione delle attrezzature o del mosto stesso. Si può approfittare della stessa fase di bollitura per sterilizzare alcuni componenti, come mestoli o serpentine di raffreddamento. In questo caso è utile effettuare l’immersione delle attrezzature 20 minuti prima della fine della fase di bollitura.

Fermentazione

E si giunge infine all’ultima fase di produzione, quella della fermentazione. È da considerarsi la fase più importante, ma anche quella meno controllabile da parte del birraio. Brevemente, con questo processo si intende il consumo di zuccheri da parte del lievito e la conseguente formazione di anidride carbonica, alcool e altre sostanze aromatiche.

Il lievito (Saccharomyces cerevisiae)  è un microrganismo unicellulare in grado di metabolizzare diversi carboidrati, dando luogo a fermentazione alcolica.

In commercio è possibile reperire lieviti in due formati, liquidi e secchi.

Il lievito secco subisce una riduzione del contenuto dell’acqua nella cellula, mediante essicazione. Durante l’essicazione le cellule si rimpicioliscono e si disidratano, arrivando a condizioni limite della loro vita. Se si intende usare del lievito secco per la propria produzione è buona norma eseguire una reidratazione del lievito. In genere e sufficiente mescolare il contenuto di una bustina in poca acqua per almeno mezz’ora prima dell’inoculo nel fusto.

Differente è il trattamento previsto per i lieviti liquidi. Le confezioni reperibili in commercio non hanno, al loro interno, un numero sufficiente di cellule per garantire una immediata partenza della fermentazione. Per ovviare al problema si applica una procedura per la moltiplicazione delle cellule. Questa procedura prende il nome di starter.

In conclusione, se si decide di utilizzare lieviti secchi si avrà una maggiore semplicità di impiego e si ridurranno i rischi di contaminazione. Con i liquidi, invece, bisogna fare molta attenzione nella preparazione dello starter ma in compenso si avrà a disposizione una più elevata scelta di ceppi differenti.

Starter

Con il termine starter si indica la preparazione di un quantitativo limitato di mosto da dare in pasto al lievito che, nel fermentarlo, andrà ad aumentare il numero di cellule. Normalmente si parla di circa 0,5 litri di mosto da preparare per 23 litri di birra. In caso di quantitativi maggiori è consigliabile preparare starter anche di 1,5 litri.

La preparazione è semplice, si mettono a bollire 0,5 litri di acqua con circa 60 grammi di estratto secco di malto per una decina di minuti. Si lascia raffreddare il mosto a circa 25°C, si versa il tutto in una bottiglia e si inocula il lievito. Si chiude la bottiglia applicando un gorgogliatore sul tappo. In 48 ore il lievito avrà il tempo necessario per moltiplicarsi e fornirci un numero adeguato di cellule da usare per la fermentazione. È importante ricordarsi sempre che qualunque oggetto entri in contatto con il lievito andrà sanitizzato.

Ruolo dell’ossigenazione

La fase di areazione ricopre un ruolo fondamentale durante la fermentazione perché permette una buona moltiplicazione cellulare. In presenza di ossigeno, il lievito darà inizio alla fase di fermentazione (aerobica). In questa fase il lievito si nutrirà dell’ossigeno disciolto attuando una moltiplicazione cellulare. Al termine delle scorte di ossigeno il lievito passa alla fase di fermentazione anaerobica nutrendosi di zuccheri e formando anidride carbonica e alcool.

Esistono diverse tecniche per ossigenare il mosto e qui di seguito elencheremo le più comunemente usate valutando pregi e difetti di ognuno di loro.

Quella più comunemente usata da chi pratica l’arte del homebrewing è chiamata splashing. Consiste nel versare il mosto nel fermentatore provocando un vigoroso rimescolamento contro le pareti. Oltre al riversamento del mosto è utile mescolare energicamente il tutto garantendo così ulteriore apporto di ossigeno.

Altra tecnica, ma di minore praticità, è quella di ossigenare il mosto utilizzando pompe da acquari. Nel caso in cui si utilizzi ossigeno puro la percentuale di saturazione sarà nettamente superiore alle tecniche precedentemente descritte[4].

Durata

Non vi sono regole ben precise in merito. Indicativamente è buona norma lasciar fermentare il mosto per circa una settimana. Questo tipo di fermentazione prende il nome di fermentazione primaria, nella quale il lievito consuma gran parte degli zuccheri presenti. Durante la fermentazione primaria si può notare la formazione di schiuma in superficie oltre al tanto atteso “borbottio” del gorgogliatore[5]. Trascorsa la prima settimana il mosto viene trasferito in un secondo fermentatore dando inizio alla fase di maturazione. Lo scopo del travaso è quello di separare il mosto dallo strato di lievito che si deposita durante la fermentazione primaria. Sembrerebbe infatti che il contatto del mosto con il lievito depositato causi problemi di autolisi[6]  oltre a compromettere il gusto nella birra finita.

Imbottigliare

Terminata la fermentazione si procede con l’imbottigliamento del prodotto.  In questo caso non si parla più di mosto ma di birra anche se ancora giovane e non frizzante. Durante la fermentazione, a causa anche delle alte temperature (dai 18° ai 24°C) viene dispersa parte dell’anidride carbonica lasciando la birra poco frizzante, piatta. Si rende quindi necessario creare un processo automatico che dia la possibilità alla birra di generare ulteriore anidride carbonica. Questo processo prende il nome di carbonazione. Si tratta di far fermentare piccole quantità di zuccheri dai lieviti direttamente in bottiglia.  Poichè si tratta di bottiglie chiuse ermeticamente questo permette all’anidride carbonica generata di disciogliersi direttamente nella birra, causando l’effervescenza al momento dell’apertura.

L’aggiunta di zuccheri semplici all’interno delle bottiglie prende il nome di priming. Il metodo consiste nel far bollire un piccolo quantitativo di acqua insieme alla quantità di zucchero necessario. Questo liquido zuccherino va aggiunto alla birra presente nel fermentatore e mescolato delicatamente per evitare di ossidare la birra. Una volta eseguita tale operazione si può procedere con l’imbottigliamento evitando, anche in questo caso, lo “splashing”, ovvero schizzi e formazione di schiuma. Per evitare tale problema è pratico l’utilizzo di un’asta di travaso applicata alla fine del tubo. L’erogazione avviene solo premendo la punta dell’asta sul fondo della bottiglia, arrestandosi immediatamente quando si cessa di premere.

Dopo l’imbottigliamento, è consigliabile mantenere le bottiglie a temperatura ambiente (anche fino a 25°C) per un paio di settimane. In questo modo si favorisce la rifermentazione in bottiglia.

Conclusioni

Oggigiorno la produzione di birra dentro le mura casalinghe sta vivendo una forte crescita. Il facile reperimento di informazioni in internet unita alla maggior disponibilità dei prodotti per homebrewing sta creando un movimento birraio come non si era mai visto prima in Italia.

Per chiunque intenda intraprendere questa meravigliosa strada consiglio di lasciarsi guidare dalla creatività. All’inizio è normale incontrare qualche difficoltà e imbattersi in risultati deludenti ma la passione, unita alla determinazione, vi daranno delle belle soddisfazioni.

Ricordo i miei primi tentativi con il metodo E + G. Ero ben consapevole del fatto che i risultati non sarebbero stati paragonabili con quanto di buono fino ad allora avessi assaggiato. Ma sapevo che qualunque cosa io facessi avrebbe arricchito sempre di più la mia esperienza e mi avrebbe aiutato a centrare meglio gli obbiettivi. Da li a poco passai alla tecnica All Grain e, cotta dopo cotta, posso ritenermi, oggi, abbastanza soddisfatto dei risultati conseguiti.

Quando decido di creare una nuova birra il primo passo che faccio è quello di idearla nella mia testa conferendo a essa le caratteristiche che dovrà avere. Ed è lì che la creatività prende il controllo e ne disegna ogni contorno. La vasta scelta di malti, luppoli, spezie e lieviti formano la nostra ricchissima “tavolozza di colori” e sta a noi decidere quali colori utilizzare per la nostra tela.

In conclusione, il processo per produrre birra in casa è attuabile senza grosse difficoltà da chiunque voglia cimentarsi in questo nuovo mondo. Non lasciatevi intimorire, il processo di produzione è antico quasi quanto l’uomo, e la sua naturalezza renderà tutto molto semplice e appagante.

[1] L’esposizione causa processi ossidativi con conseguenze negative sul prodotto finito.

[2] Nelle confezioni di luppolo sono comunemente indicati con la dicitura AA%

[3] Chiamate anche hot break

[4] Con soli 2 minuti si raggiungono livelli di saturazione  con percentuali che vanno sopra il 140%.

[5] L’anidride carbonica creata dal lievito fuoriesce dal gorgogliatore generando una specie di  “borbottio“. Tuttavia l’uso del gorgogliatore va inteso come strumento di isolamento del mosto e non come monitoraggio dell’attività di fermentazione.

[6] Processo biologico attraverso il quale una cellula si autodistrugge  (cioè “digerisce” se stessa, a causa di certi enzimi).

Tratto da Il racconto della Birra – autore Giovanni Bruno

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