Le materie prime

Quattro sono gli ingredienti che nella quasi totalità dei casi leggiamo nel retroetichetta della bottiglia: malto d’orzo e quindi, più in generale i cereali, il luppolo, l’acqua e il lievito.

I cereali

L’ingrediente che dona gli zuccheri necessari per dar vita alla fermentazione alcolica è il cereale. Il birraio può scegliere tra numerose varietà: orzo, frumento, segale, mais, avena, farro, per citarne alcuni. Uno tra questi però è considerato a buon ragione il cereale perfetto. Così come il grano è il principe della panificazione, l’orzo sembra nato per finire nei tini di un birrificio: è ricco di amido, zucchero complesso; ha un rivestimento della cariosside che crea un letto naturale per la filtrazione; contiene degli enzimi che una volta attivati rendono la vita molto facile ai lieviti, e, aspetto non da poco, regala alla birra sapori e profumi affascinanti. Non è un caso allora se questa pianta è stata scelta dall’uomo del neolitico, qualcosa come 10.000 anni fa per produrre birra. Tra le numerose varietà di orzo coltivate a scopi birrari, le più diffuse sono due: l’orzo distico, contraddistinto da due file di chicchi sulla spiga e amante di climi freschi e l’orzo esastico, con sei file di chicchi coltivato tendenzialmente in aree più calde. In genere i produttori di birra preferiscono il primo al secondo per motivi produttivi e qualitativi del prodotto finale.

Il malto

Per facilitare il processo di fermentazione e dotare il chicco di un peculiare corredo aromatico e cromatico i cereali, generalmente l’orzo, vengono maltati. Con il termine malto si indica un cereale che ha subito la maltazione, ovvero, un processo di germinazione e successiva essiccazione.
L’obiettivo è quello di attivare gli enzimi contenuti nel chicco, in modo da facilitare durante la produzione l’estrazione di zuccheri semplici (maltosio e destrine) dall’amido, carboidrato complesso. Il maltosio sarò poi trasformato dai lieviti in alcol etilico e anidride carbonica. Nella malteria il chicco viene idratato, in modo da creare quelle condizioni ambientali ideali per far partire la germinazione, e successivamente asciugato su pavimenti in ambienti ben areati a temperature intorno ai 16 C°. Il chicco in questa fase si trova nei germinatoi, dove viene rigirato più volte al giorno per permettere una corretta ossigenazione ed evitare che i germogli si attorciglino l’un con l’altro. Quando, dopo poco più di una settimana, la radichetta ha raggiunto i due terzi del chicco e gli enzimi hanno contribuito ad importanti trasformazioni biochimiche, il cereale tallito, ovvero germinato, viene trasferito nel forno di maltaggio. Qui si pone fine alla germinazione scaldando il cereale a temperature che arrivano ai 70° circa per i malti chiari fino agli oltre 200° di alcuni malti tostati. Dopo la fase di essiccazione i malti vengono raffreddati e la radichetta viene rimossa. Per ogni birra si può usare un malto soltanto o più malti differenti e aggiungere anche cereali non maltati. La legislazione italiana stabilisce che si possa chiamare birra quella bevanda prodotta dalla fermentazione di un mosto di cereali ottenuto con almeno il 60% di frumento o orzo maltati.

Malti base

Sono chiamati così i malti caratterizzati da un elevato potere enzimatico e da una resa produttiva importante. Ne fanno parte malti presenti in molte ricette come i chiari Pale o Pilsner, alla base di molte birre dorate, ma anche malti prodotti a temperature più elevate che colorano d’ambra la nostra birra e contribuiscono ai tipici profumi biscottati, come ad esempio il malto Vienna e il Monaco.

Malti speciali

Il birraio può decidere di introdurre malti speciali nella sua ricetta per contribuire a dare un
particolare colore, sapore, aroma alla birra o per aggiungere proteine e quindi migliorare la schiuma o ancora per modificare il corpo e la struttura. Solitamente sono utilizzati in percentuali più basse rispetto ai malti base. Tra questi ricordiamo il malto caramello come il CaraMunich, CaraVienna, o ancora il Crystal, che donano sensazioni dolci come il mou, oppure i malti torrefatti, che colorano di nero la nostra birra e la arricchiscono di note che ricordano il caffè, il cacao.

Malti affumicati

Sono malti che hanno subito un processo di essiccazione tramite aria calda ottenuta dal riscaldamento di pellets di faggio o quercia. Sono usati in piccola percentuale, visto che caratterizzano in maniera netta la birra con sentori che richimano lo speck o la provola, come per la famosa Schlenkerla di Bamberga. Appartengono a questa categoria anche i malti torbati, utilizzati per la produzione di whisky, affumicati con torba, un composto organico di natura vegetale che bruciato produce aromi estremamente caratteristici.

Il luppolo

C’era una volta un mix di erbe aromatiche, spezie e radici chiamato Gruyt, che il birraio utilizzava per bilanciare il dolce del malto e dare stabilità e longevità grazie alle proprietà antisettiche di alcuni ingredienti. C’era, perché a partire dal XII secolo il luppolo, o più esattamente, l’infiorescenza del luppolo, una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Cannabacee, ha relegato il Gruyt ai libri di storia. Ma quali sono le qualità così straordinarie di questo fiore, tali da decretarne la sua diffusione in ogni birrificio del pianeta? I birrai amano il luppolo perché i suoi fiori sono ricchi di una sostanza resinosa (alfa e beta acidi) che dona amaro, e di oli essenziali, che rilasciano aromi e profumi. Come se non bastasse assicura stabilità con le sue proprietà antibatteriche, antiossidanti e favorisce la formazione della schiuma. Il suo contributo come componente amaricante è essenziale per ottenere una bevanda equilibrata e gradevole, che altrimenti risulterebbe imbevibile. In produzione di distinguono due tipi di luppolo utilizzati in differenti momenti della bollitura del mosto: gli amaricanti, a cui è affidato il compito di dare amaro, per il contenuto e la qualità degli alfa acidi, mentre alle varietà ricche di oli essenziali spetta l’importante missione di emozionarci con sensazioni olfattive e aromatiche uniche. Esistono molteplici tipologie di luppolo utilizzate dal birraio per creare bouquet variegati che possono prevedere note erbacee, pepate, terrose, fruttate, anche inconsuete. Sono storici i luppoli di Poperinge in Belgio, con l’inconfondibile nota di erba cipollina, i luppoli inglesi, come il floreale Fuggle o il nobile East Kent Golding, o ancora l’elegante luppolo ceco Saaz, e i tedeschi Tettnanger, dalle intriganti note erbacee. Più recente, ma molto diffuso, l’utilizzo di luppoli americani come il Cascade, dalle note resinose e di pompelmo rosa, e il Citra, dalle sensazione di frutta esotica, o il neozelandese Nelson Sauvin, con i suoi profumi caratterizzanti di uva spina e frutto della passione.

L’acqua

Un ingrediente troppo spesso sottovalutato ma che in realtà gioca un ruolo centrale, sia per un discorso meramente quantitativo, rappresentando oltre il 90% della birra, sia, soprattutto, qualitativo. Non tutti forse sanno che l’acqua incide in maniera evidente sul risultato finale di una birra, costringendo il birraio a prendere in considerazione le caratteristiche della falda acquifera adeguando le ricette. Quanto l’acqua sia importante nella produzione ce lo ricorda la storia della birra, quando l’ubicazione di un birrificio veniva individuata in prossimità di una fonte idonea che assicurasse acque microbiologicamente pure e adatte alla produzione. L’acqua ha giocato un ruolo fondamentale per molte birre del passato. Ad esempio la rinomata pils ceca, non sarebbe la stessa senza le caratteristiche uniche della fonte di Pilsen, dolce e dal buon livello salino, perfetta per realizzare una dorata, fresca e delicata. Senza dubbio contribuirono a rendere famose le ale inglesi le acque dure, ricche di calcio di Burton upon Trent in Inghilterra, come quelle di Dublino, con alti livelli di bicarbonati, resero immortale la nera stout irlandese. In linea di massima non esiste un acqua perfetta: la scelta dipende molto dalla tipologia che si vuole realizzare. Infatti pH e durezza possono dire la loro influenzando alcune componenti solubili del malto, il corpo, ma anche l’azione di vari enzimi fino all’estrazione delle sostanze amare del luppolo. Oggi esistono metodi e tecnologia per correggere il contenuto salino di un’acqua o, addirittura, per demineralizzarla e ricostruirla aggiungendo i sali più opportuni.

Il lievito

Un microorganismo unicellulare, un fungo, capace di compiere una magia senza uguali: trasformare il mosto in birra. Senza nulla togliere al ruolo del malto, luppolo e acqua, il primo attore è sicuramente il lievito, che non si limita a trasformare gli zuccheri in alcol e anidride carbonica, ma contribuisce a caratterizzare la birra in ogni suo aspetto, dalla schiuma, agli aromi, fino al corpo. Per comprendere l’importanza del lievito è sufficiente ricordare come le birre siano classificate in tre macrocategorie individuate sulla base del lievito utilizzato. Molti stili storici soprattutto inglesi e belgi, ma anche alcuni tedeschi (come le Weizen), appartengono all’alta fermentazione, dove protagonista è il Saccharomyces Cerevisiae, lievito utilizzato nella produzione del pane come del vino. Predilige temperature tra i 14 e i 25 gradi e durante il processo sale in superficie del tino di
fermentazione. Le birre ottenute sono genericamente denominate Ale. Nella bassa fermentazione, altra macro categoria dove ci rientrano per intenderci Pils e Bock, quindi birre tipicamente tedesche e ceche, l’attore della fermentazione è il Saccharomyces Carlsbergensis che ama temperature più basse (tra i 5 e i 12 gradi) e durante il processo si deposita sul fondo del tino. Le birre appartenenti a questa famiglia vengono genericamente denominate Lager, termine tedesco che significa magazzino, riferendosi al periodo di sosta durante la maturazione nei tini. La terza macrocategoria è la fermentazione spontanea, che diede vita alle prime birre prodotte dall’uomo, visto che avviene in maniera assolutamente spontanea appunto, senza cioè alcun inoculo (inserimento del lievito nel mosto) da parte del produttore, innescata naturalmente dai lieviti presenti nell’aria. Oggi la produzione di birre a fermentazione spontanea è limitatissima: fulgidi esempi, tutti provenienti dal Belgio, sono i Lambic, le Gueuse, le Kriek, le Framboise, anche se non mancano interessanti sperimentazioni negli USA e in Italia.

La produzione

Dopo aver definito la ricetta e ordinato le materie prime necessarie, il birraio è pronto per iniziare la produzione.

Macinazione

La prima fase è quella della frantumazione dei grani di malto d’orzo e di eventuali altri cereali impiegati. Questa azione favorirà il discioglimento del contenuto zuccherino, delle proteine e delle sostanze aromatiche, di cui il chicco e ricco, nell’acqua. Questa operazione in apparenza banale riveste una notevole importanza sul risultato finale ed una scorretta macinazione può causare problemi (es. sensazioni astringenti in caso di eccessivo sfarinamento o una resa non ottimale nel caso di macinazione grossolana).

Ammostamento

Il cereale così macinato viene miscelato in acqua. Per permettere la dissoluzione di quel corredo aromatico e zuccherino che un buon mosto richiede, il birraio riscalda l’acqua seguendo una serie di pause a temperature stabilite in modo da attivare quegli enzimi, responsabili della degradazione dell’amido (zucchero complesso) in maltosio e destrine (zucchero semplice). Per innescare questo processo che agevolerà il lavoro dei lieviti sono necessarie particolari condizioni di temperatura e acidità. L’ammostamento è quindi una fase cruciale, momento decisivo in cui si disegna l’architrave di una birra, selezionando i cereali e determinando fattori come corpo, grado alcolico, schiuma, attenuazione, etc..

Metodi di ammostamento

Il birraio può adottare differenti metodi di ammostamento. Si parla di infusione, quando la miscela viene progressivamente portata a determinati livelli di temperatura tramite riscaldamento diretto; di infusione all’inglese, se l’acqua viene scaldata separatamente e aggiunta al cereale macinato; di decozione, qualora una parte della soluzione acqua/cereale viene separata e portata ad ebollizione, e successivamente unito alla miscela principale consentendo l’aumento di temperatura desiderato.

La filtrazione

Il mosto così ottenuto presenta parti di cereale, impurità che devono essere eliminate. Si passa dunque alla filtrazione che avviene solitamente grazie ad un doppio fondo presente nel tino di ammostamento che permette di trattenere il cereale esausto, ovvero le trebbie (ricche di sostanze indesiderate che andrebbero a rilasciare sensazioni astringenti e amare molto sgradevoli). Dopo la prima filtrazione, presentando le trebbie ancora una quantità di zuccheri utili, si può procedere al recupero, aumentando così l’estrazione e l’efficienza della produzione, risciacquandole con acqua calda più volte e recuperando nuovo mosto attraverso ulteriori fasi di filtrazione (sparging).

Bollitura

La bollitura del mosto, successiva alla filtrazione, viene effettuata di norma per 90 minuti (ma si possono superare anche le 4 ore) e assolve a diverse funzioni: sterilizzare il mosto, concentrarlo mediante evaporazione, favorire la coagulazione e la successiva precipitazione di proteine e polifenoli, aromatizzare e amaricare con l’inserimento del luppolo, speziare e aggiungere ingredienti ulteriori (se previsti dalla ricetta). Proprio in questa fase fa la comparsa un ingrediente centrale nella produzione, il luppolo, a cui è affidato il compito di cedere amaro e aroma. I luppoli selezionati per dare amaro saranno inseriti in una fase iniziale della bollitura, essendo gli Alfa Acidi, responsabili dell’amaro, solubili in acqua; i luppoli da aroma, ricchi di oli essenziali, in una fase terminale, visto che i precursori responsabili dei profumi sono termolabili, ovvero sofferenti alle alte temperature.

Centrifuga e raffreddamento

Al termine della bollitura il mosto contiene elementi non graditi come i residui di luppolo e di
eventuali altri ingredienti aggiunti in bollitura, oltre alle proteine coagulate. Solitamente il birraio per raggiungere il fine procede con il whirlpool, ossia alla decantazione e rimozione delle parti solide, che grazie ad un movimento circolare del mosto, si posizionano nella parte centrale del tino. Il mosto è così pronto per essere fermentato, viene così pompato nei tini di fermentazione, passando attraverso uno scambiatore di calore che lo raffredda fino alla temperatura desiderata.

La fermentazione

Siamo finalmente giunti alla fase responsabile della trasformazione del mosto in birra. Merito della fermentazione alcolica, realizzata dai lieviti. Due sono i momenti principali di questo processo: una fase aerobica, ovvero in presenza d’aria, necessaria ad ossigenare il mosto e fornire al lievito uno spunto energetico necessario alla sua riproduzione, e una seconda fase anaerobica, in assenza di aria, in cui il lievito trasforma gli zuccheri fermentabili presenti nel mosto in alcool etilico e anidride carbonica (CO2), oltre ad altre sostanze che contribuiranno al gusto finale. Le temperature di fermentazione possono variare dai 5 sino ai 30°C, in relazione al ceppo di lievito utilizzato.

Maturazione

Quando il processo di fermentazione degli zuccheri è giunto a compimento, ossia dopo 3/7 giorni (a seconda del ceppo di lievito e della temperatura di fermentazione), e il 90 % circa degli zuccheri fermentescibili è stato fermentato, si travasa la birra giovane nei serbatoi di maturazione (sistema tradizionale) oppure si chiude ermeticamente il tank e comincia un lento abbassamento della temperatura fino ad un minimo di 1-4 °C. Parte la maturazione, altro momento decisivo per la birra, che qui si affina: il dolce del malto si armonizza con l’amaro del luppolo, gli aromi diventano più evidenti ed il lievito esausto si deposita sul fondo del serbatoio (oppurtunemente spurgato dal birraio per evitare sensazioni sgradevoli). La maturazione ha una durata differente a seconda della birra prodotta (maggiore per le lager). In maturazione, cosi come in fermentazione, possono venire aggiunte sostanze aromatizzanti come luppolo (si parla in tal caso di dry hopping) o frutta. Terminata questa fase la birra è pronta per essere confezionata (in fusto o bottiglia) per il consumo.

Rifermentazione

Per molti stili di birra ad alta fermentazione si procede, alla fine della fermentazione primaria, con l’infustamento o imbottigliamento, spesso previa filtrazione, aggiungendo nuovo lievito e nuovo mosto o altre sostanze zuccherine (zucchero, zucchero candito, zucchero di canna e qualsiasi altra sostanza utile al nutrimento fermentativo del lievito). La rifermentazione migliora la stabilità e dona complessità alla birra.

Tratto da Fermento Birra

Recupero del lievito

Oggi voglio parlarvi di come eseguire un recupero del lievito dal nostro tino di fermentazione e conservarlo per la cotta successiva. L’utilità è prettamente di natura economica visto che i lieviti liquidi arrivano a costare sulle 10 euro circa a confezione.

A differenza dei lieviti secchi, che hanno costi molto più bassi, i liquidi comportano una certa spesa per l’homebrewer ed è quindi utile poter riciclare lo stesso lievito per più cotte. Per farlo occorre recuperare il sedimento di lievito che rimane in fondo al fusto. Personalmente ritengo sia meglio recuperare il lievito dal fermentatore in cui è stata eseguita la maturazione della birra. Infatti il lievito dovrebbe essere molto più pulito rispetto al lievito che rimane sul fondo del fusto subito dopo il primo travaso (quello della fermentazione primaria).

Per procedere in questa operazione consiglio di effettuare le seguenti operazioni preliminari, ovvero sanitizzare nel miglior modo possibile un vasetto di vetro. Il lievito infatti andrà versato all’interno di questo vasetto e riposto in frigorifero per 24 ore circa.

Recupero Lievito

Il giorno dopo si fa bollire dell’acqua per una decina di minuti e la si fa raffreddare. Nel frattempo si estrae dal frigorifero il vasetto di lievito. Noterete come il lievito si sia depositato sul fondo. Occorre gettare via l’acqua rimasta in sospensione lasciando il lievito all’interno del vasetto stesso. A questo punto si riempie nuovamente il vasetto con l’acqua che avevamo precedentemente fatto bollire e raffreddare . Date una leggera agitata e riporre il vasetto nuovamente in frigo. Ripetere questa operazione per una seconda volta. Alla fine io preferisco inserire il lievito in una bottiglia di birra, tapparla e conservarla in frigorifero.

Recupero Lievito

IMPORTANTE, tutto quello che va in contatto con il lievito va prima sanitizzato.

In futuro, quando si vorrà utilizzare il lievito conservato, sarà importante eseguire uno starter per riattivare le cellule di lievito.

Spero di esservi stato utile, alla prossima birra

Lo starter – wlp565 Belgian Saison

wlp-565Per le mie prime esperienze di all grain ho preferito utilizzare lieviti secchi, s-4, s-05, s-33 e t-58. Questo mi ha aiutato ad approfondire la mia conoscenza su questi ceppi, come per esempio il modo in cui questi lavorano, profumi buoni o brutti che ne scaturiscono (l’s-33 a inizio fermentazione puzzava di uova marce), blocchi e tanto altro.

Domenica, con la realizzazione della prima Saison, ho deciso di utilizzare il mio primo lievito liquido anche perchè, per la riuscita di una vera saison occorre utilizzare un ceppo di lievito appropriato.

Note: La Saison è uno stile di birra in cui l’ingrediente fondamentale, più che negli altri stili, è il lievito. Malti e luppoli non sono fondamentali per caratterizzare veramente questa birra. Il lievito invece è l’unico che è in grado di generare quei sentori tipici delle saison.

Per l’occasione ho deciso di utilizzare il WLP 565 Belgian Saison della White Labs. Secondo i dati riportati dalla casa produttrice (http://www.whitelabs.com/yeast/wlp565-belgian-saison-i-yeast) e dai commenti trovati su diversi forum la caratteristica di questo lievito sembrerebbe essere il tempo lungo che occorre per far si che il lievito porti a termine il suo lavoro.

Molti, infatti, tendono ad inoculare un altro ceppo di lievito verso fine fermentazione per accelerare tale processo ed evitare lunghe attese.

Ma andiamo a trattare l’argomento di oggi, ovvero, vediamo come eseguire uno starter di un lievito. Lo starter è semplicemente un mini-mosto ed ha lo scopo di far moltiplicare le cellule di lievito.

Questo si rende necessario perchè il numero di cellule presenti nelle confezioni non sono sufficienti per essere inoculate in mosti superiori a 20 Lt ed è quindi necessario farle moltiplicare.

Le regole per la creazione di uno starter sono IDENTICHE a quelle che usiamo normalmente durante la birrificazione, ovvero, sanitizzazione di tutti i componenti che andranno in contatto con il mosto, temperature di fermentazione indicate sulla confezione del lievito, ossigenazione pre-inoculo, ect.

Procedimento:

Si procede facendo bollire per 10 minuti mezzo litro di acqua con 60 gr di estratto secco di malto. Questo dovrebbe garantirci una densità del mosto a circa 1,040. Oltre all’estratto di malto consiglio di aggiungere  anche del nutrimento per lievito. Faccio raffreddare il tutto e inoculo il lievito chiudendo la bottiglia con tappo e gorgogliatore.

Superate le 24 ore noterete che il lievito ha cominciato a moltiplicarsi (sedimento sul fondo). Normalmente mezzo litro di starter dovrebbe bastare per circa 23 lt di mosto. Se avete intenzione di produrre molti più litri di birra vi consiglio di rieseguire la procedura dello starter una seconda volta portando, gradualmente, il quantitativo a circa 1,5 Lt.

Normalmente lo starter va fatto 2-3 giorni prima della birrificazione in modo da dare il tempo giusto al lievito di riprodursi. Ma questa durata dipende da alcuni fattori. Se per esempio dovere effettuare più step per lo starter vi occorrerà più tempo. Lo stesso vale se il lievito acquistato è troppo vecchio o prossimo alla data di scadenza.

Se volete approfondire ulteriormente l’argomento vi rimando al seguente articolo dove vengono trattati anche apetti biologici del lievito stesso:

http://www.areabirra.it/italian/articolo_tecniche_homebrewing.php?idnews=12

alla prossima birra